> 5 Artisti Italiani presenti a Milano nella settimana di #Miart2023 > crisi e prospettive per l’arte contemporanea.

Cenci, Tosatti e Senatore partono da buone intuizioni ma poi non trovano un contesto critico e formativo efficace, come antitesi necessaria per una sintesi più matura e attinente al presente; Marcon e Ancarani cercano di raggirare la crisi dell’opera scivolando nelle capacità narrative del cinema.

YURI ANCARANI > al PAC di Milano tra film e documentario, tra arte e cinema, alcuni “film” meglio di altri (bene il Capo più documentaristico e prevedibile Leonardo), ma l’ennesima mostra che testimonia della crisi del “dispositivo opera d’arte” nel 2023: se spegniamo i proiettori il museo risulta completamente vuoto. Si cerca di salvare l’arte contemporanea tramite la narrativa e le possibilità del cinema, un po’ come nel 2019 che vinse alla Biennale di Venezia il Padiglione Lituania con la spiaggia realistica da osservare come fossimo a teatro. Si preferisce scappare dall’opera d’arte convenzionale che appare “noiosa” e che fatica nel competere con una realtà fuori dai musei molto più densa e complessa, una realtà che gli artisti non riescono ad affrontare e domare. Ancarani non fa altro che filmare in modo asciutto cose e eventi strani e particolari, ma questo ci sembra tantissimo rispetto il livello a cui ci hanno abituato fiere, biennali, e mostre internazionali come Documenta 15. 

MARINELLA SENATORE > Nuova insegna luminosa al Ristorante Carlo Cracco di Milano che a rotazione ospita alcuni artisti contemporanei sulla facciata del ristorante. Come era successo per la sfilata di Dior l’arte contemporanea diventa “vetrina e insegna”, decoro; gli artisti sembrano vetrinisti di lusso che rischiano di rimanere soffocati (recentemente Santiago Sierra organizzando una sfilata nel fango è riuscito in una buona collaborazione con Balenciaga). In questo caso vediamo un’insegna luminosa e colorata che l’artista usa spesso, e con su scritta la frase in inglese “possiamo crescere solo sostenendoci gli uni con gli altri”. In altre parole “ama il prossimo tuo come te stesso”. Una retorica prevedibile applicata ad insegne luminose che dovrebbero discendere dalle intenzioni di arte partecipativa che l’artista rivendica fortemente: ma l’insegna luminosa come la parata-festa (altre scelte che l’artista usa spesso) pongono lo spettatore in una condizione di contemplazione passiva che sono il contrario della partecipazione; questo quando un ragazzino dell’Arizona, senza alcuna intenzione “artistica”, può creare un movimento mondiale tramite un video girato con il cellulare e divenuto virale (Black Lives Matter). Le intenzioni di arte impegnata e partecipativa, rivendicate in pompa magna dall’artista e dai suoi curatori amici, finiscono per formalizzarsi in piacevoli manifestazioni di pop art (luminarie, festa, luci, musica, ecc) che già avvengono, semmai più efficacemente, nella realtà. Ancora una volta la debolezza dell’arte contemporanea rispetto al nostro presente e un sistema dell’arte che, dovendo avere contenuti da vendere e mostrare, corre in soccorso con lo “storytelling” dell’arte socialmente utile.

GIAN MARIA TOSATTI > Dopo un Padiglione Italia 2022 definito da Francesco Bonami “inutile” su RaiTre e una Quadriennale variegata ma dispersiva, tutti lo aspettavano al varco con la sua mostra da Hangar Bicocca: una mostra completamente ripiegata su codici modernisti che risalgono a 70 anni fa’. Le opere sembrano l’infelice incontro tra artisti moderni come Alberto Burri (l’uso dell’oro), Jannis Kounellis (il ferro, la ruggine) e Alighiero Boetti (opere fittamente disegnate). Un’operazione incomprensibile per un’artista quarantenne che ha sempre lavorato riaprendo luoghi abbandonati e facendo leva sulla loro suggestione “scenografica” che questi luoghi avevano di per sè. Dopo Biennale e Quadriennale la mostra da Hangar Bicocca sembra il tentativo di passare all’incasso con grandi opere che, avendo codici che abbiamo già negli occhi, possono essere facilmente veicolate ad un collezionismo speculativo e poco conoscitore della storia dell’arte. Anche in questo caso il “doping delle pubbliche relazioni” e lo storytelling (il declino, la citazione di Pasolini, la fabbrica fallita per il Covid del Padiglione Italia, ecc), diventano gli strumenti per trasformare qualsiasi cosa in moneta.
I problemi che avevo indicato 14 anni fa oggi sono degenerati e molti artisti, non avendo alternative, devono assolutamente veicolare contenuti standard con la complicità di un sistema dell’arte che deve pur sempre vendere e “fare mostre”. D’altronde non si può sempre pescare nel moderno (inizio 900- anni ’70) o nel far passare artisti anno ’90, formati 30-40 anni fa, come “arte contemporanea” (vedi quello che fa Palazzo Strozzi con artisti come Koons, Eliasson, Weiwei ecc.). Pensiamo solo che Vincenzo De Bellis (incredibilmente passato dalla gestione di uno spazio no profit a Milano a direttore della Fiera Miart, a curatore di importante museo USA e oggi direttore di Art Basel) ha visto come sua principale esperienza curatoriale una mostra di “Jannis Kounellis”, grandissimo artista ma legato anche lui al moderno e a quello che succedeva 60 anni fa.

A questo proposito, al di là delle carenze critiche e formative, gli artisti più giovani dovrebbero avere un secondo lavoro, almeno inizialmente. Solo un secondo lavoro può rendere l’artista realmente libero e indipendente nella prima fase della sua carriera, ossia quella più importante per formarsi; questo permetterebbe quell’interesse e quella passione per la ricerca che è assolutamente necessario per l’arte contemporanea nell’affrontare efficacemente il presente. Se il contemporaneo perde il presente, come sta avvenendo, è morto. Le opere diventano decoro da interni, IKEA evoluta, un modo per arredare la casa al mare e sembrare più sofisticati con gli amici; un modo per aiutare il mondo della moda o della ristorazione per essere più trendy (fare l’insegna di Cracco). In altre parole una grande perdita di opportunità per l’arte che si definisce “contemporanea”.

GIULIA CENCI > Presente in Fiera a Miart e da Spazio A a Pistoia con una nuova serie di lavori dove gli scheletri di alcuni sedili di auto diventano i corpi per calchi di volti dal sapore antico. Ancora l’ennesima forma di archeologia per un’artista come moltissimi affetta dalla Sindrome del Giovane Indiana Jones (Samorì, Tosatti, Andreotta Calò, Roberto Cuoghi, Arena, Siedleki, Camoni, Danh Vo, Haris Epaminonda, Ali Cherri, ecc. ecc). Questa volta una forma di archeologia post industriale rintracciata in una discarica di ferri vecchi. Completano l’operazione volti che conferirebbero pathos e tensione a qualsiasi cosa sotto di loro. Non esiste arte giusta e arte sbagliata, questa sindrome può essere una via per affrontare il presente, ma non può essere l’unica come avviene da più di 10 anni. Nel 2012 scrissi il primo articolo su i Giovani Indiana Jones su Artribune, e quindi il problema esisteva al tempo già da alcuni anni. Sono artisti che invece di affrontare il presente preferiscono scavare nei cimiteri, e cercare così “valori sicuri”. E’ una scelta, ma una scelta che negli ultimi anni è stata pesantemente abusata fino a diventare una MODA; ossia quello che Agamben contrappone proprio al concetto di contemporaneo.

DIEGO MARCON > Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia curata da Cecilia Alemani, viene invitato da Massimiliano Gioni (marito di Alemani) alla Fondazione Trussardi di Milano (solo a giugno). Fatto più unico che raro per il curatore italiano di base al New Museum di New York, solitamente molto restio ad invitare artisti italiani delle ultime generazioni. Come Yuri Ancarani anche Diego Marcon scivola nel cinema nel tentativo di salvare l’opera d’arte convenzionale. Questa ambiguità sembra una strategia per rendere questi artisti visivi più curiosi e appetibili per il cinema, e per produzioni che hanno l’ambizione di chiamarsi “arte e non solo cinema”. L’espediente delle maschere-marionette, usato da Marcon nel video presente in Biennale, viene preso da un’idea del regista Charlie Kaufman che realizza nel 2015 il film Anomalisa; l’idea del padre famiglia che uccide tutta la famiglia e poi si esegue un canto lungo e melenso, sviluppa un’idea non originale in un modo alquanto pensate e retorico. Sembra quasi che per non confrontarsi con la severità del cinema si preferisca la mostra d’arte, dove tempi lunghi e certe licenze possano essere viste sotto una luce diversa.
Luca Rossi

Nelle foto in ordine: Ancarani, Senatore, Tosatti, Cenci e Marcon.